Alessandro Chetta/Corrieredelmezzogiorno.it

NAPOLI – In «Morire di lavoro» la macchina da presa, anzi la videocamera (le immagini sono tutte in digitale) si schiaccia contro i volti di operai, muratori, carpentieri, gruisti, uomini di fatica. Ognuno racconta le sue storie di ordinario funambolismo, tra cavi, ponteggi sospesi su una nuvola, equilibri precari. è il racconto rigoroso e dolente che Daniele Segre ha realizzato per descrivere le difficoltà di chi svolge il “lavoro usurante” per antonomasia. Miglior attore protagonista è il lavoratore-tipo, a nero, meridionale, settentrionale, slavo, africano, dei misteriosi cantieri italiani. Ne è venuto fuori un documentario-documento – «Morire di lavoro» – un po' alla Biutiful cauntri, mai retorico perchè l'autore riesce a non imporre sentenze, anche velate: si limita a dare il microfono ai manovali e alle loro famiglie. Da Sud a Nord. «Quelli più poetici nella loro drammaticità – assicura Segre – sono gli operai napoletani, con un proprio tesori di storie e vicende incredibili e la capacità di raccontarle con leggerezza poetica». Come quel muratore che gira in auto per Napoli e indica ai due figli i palazzi che ha «costruito» o ridipinto. «Così, i miei figli sono orgogliosi di me» chiosa.
NIENTE TV – Il cinema non può mettere le ali a un operaio che precipita da 20 metri, è chiaro, ma «può rappresentare uno strumento utile ad una grande riflessione collettiva su un tema così tragico come le morti bianche» racconta lo stesso Segre, nel dibattito con gli studenti successivo alla visione del film nell'auditorium di Castel Sant'Elmo. Incontro organizzato da Augusto Sainati nella mattinata di martedì 10 giugno, nell'ambito della sezione «Parole di cinema» del Napoli film festival 2008. La “riflessione” però resta interdetta al grande pubblico televisivo, come denuncia il regista (nonostante il video sia stato proiettato in anteprima alla Camera dei deputati, un anno fa). «La Rai – dice – ha detto no alla trasmissione in prima serata del documentario. Certo, chiedere la programmazione in prima serata può sembrare pretenzioso ma a pensarci bene non lo è, perchè la tv pubblica dovrebbe fare servizio pubblico e “Morire di lavoro” assolve, credo, a tale funzione».